I reperti metallici di provenienza archeologica presentano generalmente una patina formata dai prodotti della corrosione degli stessi che può costituire un “guscio” relativamente protettivo sotto al quale il metallo talvolta conserva la sua originale struttura.
Le patine, al contempo, spesso deturpano l’oggetto rendendone impossibile la lettura: per questo motivo i prodotti della corrosione metallica vengono in genere assottigliati e, dove opportuno, in parte rimossi per permettere la messa in luce dei profili originali del reperto.
Passaggio fondamentale, se le condizioni “di salute” del reperto lo consentono, è quello dei bagni in acqua demineralizzata, ripetuti fino all’eliminazione dei sali o fino alla stabilizzazione, misurate con conduttivimetro di salinità.
La successiva asportazione dei prodotti più evidenti della corrosione viene effettuata sotto microscopio binoculare con l’ausilio di bisturi, spazzoline montate su micromotore e, nel caso dei reperti in ferro, mediante microsabbiatura con polvere di alluminio.
Segue la fase di inibizione della corrosione e della conversione degli strati di ossido, le cui modalità vengono scelte di volta in volta, in base al metallo trattato.
Spesso si rende necessaria la sigillatura delle lacune per restituire solidità a oggetti fragili e fessurati: questa si realizza di preferenza con resina epossidica bi-componente caricata con ossidi e terre naturali dalla gradazione il più possibile vicina a quella del metallo da restaurare; la stessa metodologia è impiegata per eseguire integrazioni di parti mancanti.
Per la protezione delle superfici si ricorre, in genere, al metacrilato diluito in solvente e steso a spruzzo, anche se talvolta si preferisce l’applicazione di cera microcristallina a caldo.
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